INTERVISTA A UGO VIGNUZZI di Ginevra Furlan

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Introducendo un tema delicato come quello del rapporto tra dialetto e lingua, non può mancare un riferimento  a Ugo Vignuzzi, professore ordinario di dialettologia presso l’università di Roma La Sapienza e membro dell’illustre Accademia della Crusca. Il professor Vignuzzi ha dedicato gran parte della carriera allo studio della nostra bella lingua e, in particolare, ad un suo aspetto di rilevanza non affatto secondaria: il dialetto. Con la spontanea disponibilità che da sempre lo contraddistingue, Vignuzzi ci ha efficacemente illustrato i tratti salienti  della questione.

Che cosa è un dialetto e da dove deriva il termine?

Il concetto di dialetto nasce in antica Grecia, da “dialectos” per individuare le diverse varietà del greco, come lo ionico, il dorico, l’attico. Il termine scomparve per secoli, per poi riaffiorare in età umanistica, col rinascere delle arti e degli studi sull’antico, con una nuova accezione: indicava i volgari italiani che si trovarono in condizioni di marginalità e opposizione rispetto alla varietà che sarebbe poi diventata egemone in tutta la penisola, il toscano di base fiorentina. Il dialetto, termine che costituisce una tipica reintroduzione colta di età umanistica, passò quindi ad indicare un sistema linguistico ristretto all’uso orale e tipico di una comunità che non ha preoccupazioni intellettualistiche, ma pratiche ed immediate. Il dialetto è pertanto la lingua primaria che si impara in famiglia e che determina l’appartenenza ad una comunità locale, molto spesso agricola, ristretta e coesa.

Come e quando nascono i dialetti in Italia?

I vari dialetti nascono sulle ceneri del latino parlato dal popolo, un idioma molto lontano dalla lingua equilibrata dei classici. Col trascorrere dei secoli, tali varietà orali e popolari si differenziarono gradualmente dall’antica matrice, il latino, sino a divenirne molto diversi. È così che nacquero i dialetti italiani, varietà tra loro “sorelle”, in quanto derivanti da una stessa “madre”. Non solo i dialetti italiani sono dirette continuazioni del latino parlato, anche lingue moderne come il francese, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno condividono una comune origine latina e sono pertanto dette “romanze”. Ma le lingue non “nascono” da un giorno all’altro, e, almeno le romanze, sorsero per lentissima differenziazione. Ciò significa che arrivò un preciso momento storico in cui gli italici e gli europei discendenti dai romani non compresero più la lingua dei loro avi latini. Questo avvenne nel IX secolo per il francese, la primissima lingua romanza mai testimoniata, mentre le varietà iberiche ed italiche sono di più tarda attestazione, tra il X e XI secolo.

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Perché, tra le numerose varietà dialettali, si impose quella fiorentina, sino a proseguire nell’italiano moderno?

In Italia esistono tra le 9.000 e le 10.000 comunità locali, ciò significa che esistono altrettanti dialetti, in quanto siamo un paese plurimo, dai mille volti e dalle mille identità. Fra queste numerose varietà, nel Trecento, si impose la fiorentina, ma non quella parlata dal volgo, bensì quella letteraria e aulica delle nostre “tre corone” : Dante, Petrarca, Boccaccio. Si trattava di una lingua esclusivamente scritta che non trovava riscontro a livello orale, una lingua che si impose definitivamente nel Cinquecento, in tutta la penisola, dopo un aspro dibattito. Da una parte, dovremmo essere orgogliosi del fatto che l’italiano fiorentino fu una delle poche lingue, in Europa, che non fu imposta con la forza delle armi e con la costrizione, ma si trattò di una scelta volontaria per l’alto prestigio culturale della varietà. D’altra parte, tale scelta ricadde su una lingua fittizia, astratta, che esisteva solo nei libri e che non era parlata nella realtà. Per quanto prestigioso, l’italiano nacque come pura lingua letteraria.

Ci spieghi l’ostilità preconcetta nei confronti del dialetto: come mai molti pensano che non si tratti di un bene storico da preservare, ma di un volgare metodo comunicativo degno degli incolti?

I pregiudizi che si addensano sul dialetto sono dovuti alla falsa opinione che attribuisce alla lingua nazionale uno statuto superiore. L’italiano di base fiorentina e i numerosi dialetti della penisola sono in realtà lingue sorelle, in quanto derivanti tutte dal medesimo progenitore latino: esse hanno quindi pari dignità. La differenza tra lingua nazionale e dialetto sta nel fatto che la prima si impose sull’altro per gli usi scritti, colti e sovra locali: ci si servì dell’italiano per comunicare ed essere compresi lontano dalla propria comunità.

Si è spesso ostili nei confronti del dialetto in virtù di chi lo ha sempre utilizzato come idioma materno e primario, ovvero i ceti bassi e chiunque necessitasse di una comunicazione immediata e non sofisticata: i contadini, gli incolti, gli ignoranti e tutte le categorie da sempre disprezzate, ai margini della grande storia ufficiale. Non bisogna dimenticare che la stessa parola “villano”, che in origine indicava semplicemente l’abitante della villa romana (il nostro moderno “fattore” o “contadino”) acquisì subito e conserva tutt’oggi un significato altamente dispregiativo. Lo stesso scrittore italiano Cesare Pavese non sembra immune da questa visuale quando, in Paesi tuoi, definisce il dialetto come “sotto storia”.

In un periodo come l’attuale, in cui molti giovani italiani neanche sembrano avere pieno possesso della lingua materna, come pensa sia possibile incoraggiare la valorizzazione dei dialetti, senza tuttavia togliere spazio alla lingua nazionale?

Innanzitutto, sono contrario ad introdurre lo studio del dialetto a scuola: non si può insegnare il napoletano, il siciliano o il veneziano come fossero matematica, storia o geografia. Il dialetto è la lingua materna che si acquisisce vivendo in una comunità locale e ad impararla “artificialmente”, sui banchi di scuola, si contravverrebbe alla sua stessa natura di lingua della spontaneità. Ciò non significa abbandonare quello che è uno dei più vasti patrimoni culturali accertati dall’ Unesco; del dialetto, specchio della realtà plurima e delle mille facce dell’Italia, bisognerebbe rivalutare la portata culturale, le tradizioni millenarie, la ricca gastronomia, gli usi e costumi connessi. Promuovere e diffondere questa cultura locale è assolutamente doveroso e non implica affatto una messa da parte della lingua nazionale, anzi, ne costituirebbe un arricchimento: è sempre utile valorizzare le nostre radici, sapere da dove veniamo.

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