INTERVISTA A MICHELE ORTORE di Pierfrancesco De Paolis

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Il Bibliomane ogni volta che sente puzza di talento non si tira indietro. Anche in questo caso, con Michele Ortore, non ha fatto eccezione, e a maggior ragione visto che abbiamo a che fare un giovincello molto promettente (e chi scrive lo conosce personalmente) che ha tutti i titoli giusti per fare il botto nella vita e nella letteratura.  Buonanotte occhi di Elsa è la sua raccolta di poesie di prossima uscita per Vydia Editore.

La presentazione si terrà proprio questo sabato alle 18,30 al Black Market di roma, in via Panisperna 101. Interverrà il direttore editoriale di Vydia, Alessandro Seri; la serata verrà inoltre accompagnata da Gianluca Angelici al pianoforte e dalle letture di Tamara Bartolini.

Quindi accorrete numerosi perché Michele Ortore sembra essere uno che ha parecchie cose da raccontare. Nel frattempo leggetevi quest’intervista che potrebbe fungere da antipasto della portata principale. In ogni caso, lettori de Il Bibliomane, non vi abbuffate troppo: prossimamente aspettatevi su questi lidi anche la recensione di Buonanotte occhi di Elsa, in modo tale che l’esperienza godereccia sia completa.

 

Dicci un po’ di te: da dove vieni e dove vuoi arrivare.

Sono uno dei tanti provinciali arrivati a Roma sulla soglia dei vent’anni, in cerca di un ambiente grande dove far crescere le passioni e allo stesso tempo metterle alla prova. Mi sono laureato in Lettere un anno fa. Non ho mai pensato, però, che lo studio in sé potesse bastare a garantirmi un futuro professionale o una formazione davvero completa, soprattutto in un settore quanto mai ostico com’è oggi quello umanistico. Così, durante gli anni dell’università, ho provato a darmi da fare in più campi: ho scritto di teatro, di poesia, ho fatto i miei immancabili mesi di stage non retribuito (presso un giornale che, limpidamente, infarciva le pagine di slogan sulla lotta al precariato).  La poesia, da quando ero piccolo e in particolare dai 14 anni, è stata un po’ il sismografo di un’apertura al mondo che ho sempre cercato di mantenere, anche quando quest’apertura è stata enormemente dispendiosa e faticosa. La poesia, cioè, è lo strumento espressivo che meglio mi permette di raccogliere, come in un prisma, i riflessi di vari campi del sapere (arte, filosofia, scienza) e di trarne una sintesi personale e, spero, positiva. Propositiva, anche.  Dove voglio arrivare? Sicuramente non a sentirmi troppo «poeta» o «scrittore», perché credo si tratti soltanto di etichette, di conforti identitari, a cui spesso noi giovani ambiamo proprio perché – volenti o nolenti – la nostra generazione è il prodotto del consumismo culturale. Vorrei arrivare, concretamente, ad un maggior equilibrio fra la dimensione lavorativa e quella artistico-culturale. Basterebbe fare l’insegnante, in fondo: il problema è che ormai è più facile vincere il premio Strega che una supplenza annuale…

Cosa ti ha spinto a volere pubblicare una raccolta di poesia? Qual è stata la tua esperienza editoriale?

A 18 anni avevo messo su con un certo entusiasmo una raccolta di una settantina di poesie: si chiamava amigdala. Avevo l’urgenza, quasi la necessità di pubblicare: spedii il manoscritto ad almeno una ventina di case editrici, convinto che ne avrei trovata qualcuna interessata al libro. Ebbi diverse risposte: complimenti immancabilmente prestampati (“notevole ricerca d’avanguardia”, “verseggiare giovane ma maturo” e robe del genere) e promesse di grandi successi editoriali, previo acquisto di un certo numero di copie, per un prezzo quasi sempre esoso. L’incontro con l’editoria a pagamento mi ha convinto a pensare alla pubblicazione con meno patemi: col senno di poi, mi sono accorto che l’errore era stato anche mio. Bisogna avere un po’ di fiducia in sé stessi e negli altri, e pensare: se me lo merito, se lavoro duro, la pubblicazione prima o poi arriverà. Nel mio caso è stato così: Buonanotte occhi di Elsa esce per Vydia, un editore che se crede in un libro ci investe, cioè non chiede contributi economici agli autori. Con Vydia ho avuto un’esperienza molto positiva: a partire dal rapporto personale e non pseudo-burocratico, passando per una fase di editing seria da cui diversi testi sono usciti rafforzati, per arrivare alla possibilità di promuovere in diverse città il libro e di produrre sia un audiolibro sia un e-book. Sono tutte cose che un editore, se non è drogato dal contributo economico dell’autore, ha inevitabilmente interesse a fare.

Parliamo di poesia. Cos’è secondo te? Quali sono, se ci sono, i tuoi poeti di riferimento? Come si riversa tutto questo nella tua raccolta?

Per una definizione puntuale di poesia bisognerebbe chiedere a qualche strutturalista! Posso dirti, però, cos’è la poesia per me: è quel mezzo espressivo che, pur essendo principalmente verbale, trasmette al lettore un messaggio plurale, in cui anche il suono e la disposizione delle parole sulla pagina sono fondamentali, e in cui lo sviluppo 5562_10200816793333504_525771059_nrazionale del discorso può coesistere con scatti improvvisi, magari legati allo scorrere di un’immagine, ad un accostamento inaspettato. I miei poeti di riferimento sono quelli che accettano di affondare la mani nel periodo in cui vivono, senza chiudersi nella famigerata torre d’avorio, ma allo stesso tempo senza abdicare al presente: bisognerebbe mostrare in una poesia il male che s’incontra ogni giorno, ma allo stesso tempo i tanti momenti di bene cui è indissolubilmente legato. Il mio riferimento rimane la citatissima frase di Calvino dalle Città invisibili: bisogna saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. In Buonanotte occhi di Elsa, nel mio piccolo e coi miei limiti, cerco di fare questo. Venendo a qualche nome del Novecento, ho letto molto Montale, Auden, Ginsberg, Saba, Rebora. Fra i contemporanei: Eugenio De Signoribus (marchigiano come me) e Maria Grazia Calandrone.

Qual è il tema principale che si cela dietro alla raccolta? Cosa ci vuole raccontare?

Sai, l’idea di racconto e di narrazione  è uno dei nodi più problematici  per la poesia contemporanea. Ad esempio, verrebbe spontaneo pensare che se un testo poetico si avvicina alle strutture della prosa, o se il frammento lirico tende alla continuità e all’estensione poematica, allora la poesia con cui abbiamo a che fare sia sbilanciata verso il raccontare. Ma in realtà la questione non è così semplice. Qualche anno fa è uscita un’antologia di poeti sperimentali, «Prosa in prosa»: un libro che fin dal titolo giocava ironicamente col concetto di poesia in prosa, rivendicando la piena dignità del secondo termine del binomio come strumento di sperimentazione semantica. Per «Prosa in prosa» era importante, quindi, aprirsi al linguaggio comune, ai burocratismi, ai codici settoriali. Essere, pienamente e totalmente, prosa, eppure avere quella capacità di scavare espressivamente il linguaggio che di solito si riconosce alla lingua poetica. Però, provando a leggere qualche brano da quel libro, hai subito chiaro che fare poesia prosastica non significa affatto fare poesia narrativa. Anzi: certi pastiche e certi montaggi asemantici sono tutto il contrario di28824544_buonanotte-occhi-di-elsa-esordio-di-michele-ortore-0 quella piacevolezza e quell’immediatezza attribuite di solito alla narrazione. In Buonanotte occhi di Elsa il panorama poetico prevalente è senz’altro quello lirico: significa che il lettore troverà spesso un «io» a parlare, una situazione emotiva sfumata ma comunque riconoscibile. Eppure penso che attraverso questi tanti «io», soltanto a volte coincidenti con l’io biografico, nella maggior parte delle mie poesie si irradia il riflesso di una storia, di un racconto: questo
avviene soprattutto nella seconda sezione, Favole al telefono (un omaggio al mio amato Gianni Rodari), in cui agiscono o parlano personaggi della letteratura, finzionali o reali, come Cidrolin dai Fiori blu di Queneau, Paul Celan, Il barone di Münchausen. Per dirti qual è il tema centrale del libro, considerando la varietà delle tre sezioni, non posso che richiamarmi al titolo, cioè ad Elsa Triolet, moglie di Louis Aragon, il grande poeta francese. Elsa e Louis vissero per tutta la vita un sodalizio amoroso, artistico, politico. La mia raccolta gira proprio attorno a questa possibilità, a questo sogno, che oggi ci sembra quanto mai appartenere al passato: la sintesi di vita e ideale, di fede politica e fede d’amore, di teoria e impegno diretto. Augurare buonanotte agli occhi di Elsa non significa dire addio. Significa accettare la necessità del sonno, ma anche essere già proiettati sul risveglio, sull’elaborazione dei nuovi modi con cui gli occhi di Elsa, il giorno successivo, potranno vedere il mondo.

In un panorama in cui chiunque si cimenta scrittore cosa serve a fare la differenza?

Tanta autocritica. La volontà di chiedersi, mille e più volte, se ciò che si sta scrivendo è capace di valicare almeno un po’ quel narcisismo senza cui nemmeno si comincerebbe a scrivere. Superare il riflesso istintivo del voler dire la propria senza prima aver ascoltato, ovvero letto. Pensare la lettura come una materia prima da cui si può distillare un piccolo e denso contributo personale: se la materia prima è scarsa o è inesistente, il distillato nella maggior parte dei casi sarà insapore. Chiaramente, se miriamo al successo e alla fama, abbiamo tutti sotto gli occhi che quanto detto fin qui non sempre è necessario. Ma sono convinto che sub specie aeternitatis sarà facile distinguere, tra una sfumatura di grigio e una di rosso, chi davvero ha visto nell’arte una possibilità di condivisione autentica e profonda, e chi invece l’ha usata come ennesima scommessa sul proprio io.

 

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